Un bisogno esistenziale. La relazione tra cibo e morte

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Domenica 1 Novembre, Il Rumore del Lutto presenterà un evento intitolato “Il Cibo Consolatorio. Cena conviviale per anime vive”. In questo articolo vi offrirò perciò una piccola introduzione sul ruolo del cibo in contesto funerario.

Fin dall’antichità si è andata sviluppando una stretta relazione fra morte e cibo. Partiamo da una tradizione italiana: in molte regioni sono diffusi dolci che vengono o venivano preparati in occasione di Ognissanti o del Giorno dei Morti. “Pan dei Morti”, “Fave dei Morti”, “Ossa da Mordere”: la denominazione cambia da luogo a luogo, ma l’origine della tradizione rimane più o meno la stessa. In tempi antichi, infatti, si pensava che durante la notte di Ognissanti le anime dei defunti facessero visita ai parenti rimasti in vita, e i dolci venivano preparati per celebrarne l’arrivo. In alcuni luoghi si diceva che le anime dei morti si sarebbero riunite a tavola, una credenza ripresa dalla poesia di Giovanni Pascoli, “La Tovaglia”. Dalla sua ispirazione si desume che, di norma, fosse inappropriato lasciare la tovaglia sul tavolo, perché i morti vi si sarebbero riuniti attorno:

“Le dicevano: ― Bambina!
che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l’hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch’è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!”

La relazione tra cibo e morte si trova un po’ ovunque nel mondo. Dato che le motivazioni per cui il cibo ha grande importanza in tale contesto variano da cultura a cultura, vi offrirò un piccolo assaggio di usanze tipiche di diverse parti del globo.

Fra i cristiani ortodossi, un cibo in particolare è associato alla morte: la Koliva, ovvero grano bollito condito con miele, zucchero ed altri ingredienti a seconda della ricetta. Oltre che in speciali giorni del calendario (quale il giorno di San Teodoro), questo cibo viene preparato in occasione della commemorazione dei defunti. Stando alla interpretazione più frequente, la scelta di utilizzare il grano simboleggia la morte e la resurrezione del defunto, come dal versetto: “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Giovanni:12:24)”.

In altri casi, la consumazione di cibo ha scopi ben diversi. Fra il popolo dei Wari’ in Amazzonia, fino agli anni ’60 era usanza arrostire e mangiare la carne dei parenti defunti. Come spiega Beth Conklin, l’autrice dell’interessantissimo Consuming Grief: Compassionate Cannibalism in an Amazonian Society, l’atto aveva non solo una valenza fortemente simbolica, ma rappresentava una forma di “affetto e rispetto nei confronti del defunto, un modo per aiutare i sopravvissuti ad affrontare il loro dolore”.

In altre tradizioni, il cibo viene utilizzato per nutrire i defunti stessi. Come è noto, molte antiche civiltà usavano seppellire i morti con abbondanti scorte di cibo nel corredo funerario. Nell’antico Egitto, ad esempio, le vivande non venivano solo seppellite insieme al cadavere, ma anche dipinte o scolpite su pareti o sarcofaghi per sfamare il defunto nell’aldilà. Il cibo copre un ruolo importante anche nella cosmologia giapponese. Nei funerali giapponesi, una ciotola di riso viene posta accanto alla testa del defunto. I bastoncini vi vengono inseriti verticalmente, perché lo spirito del defunto possa servirsene per mangiare (questo spiega anche perché in Giappone si pensi che inserire verticalmente i bastoncini nel riso porti sfortuna).  Inoltre, nelle leggende giapponesi, esiste un fantasma chiamato hidarugami, che fa morire di fame le proprie vittime. L’unico modo per difendersi dallo spettro è mangiare immediatamente qualcosa, gettare un boccone per terra come offerta, o scrivere l’ideogramma “riso” sulla propria mano ed applicarvi la lingua (vi suggerisco l’interessantissimo Ghosts and the Japanese di Michiko Iwasaka e Barre Toelken).

Infine, in altre tradizioni, la terra stessa viene “cibata” per i defunti. Nell’antica Grecia, libagioni di miele, latte o acqua venivano versate sulla terra perché arrivassero ai residenti dell’oltretomba. Similmente, gli antichi romani versavano altre sostanze commestibili quali latte o vino sul luogo di sepoltura. Quest’atto metaforico aveva una manifestazione molto più concreta in alcune necropoli (o anche nelle catacombe di Roma) che venivano equipaggiate con tubi attraverso le quali le libagioni raggiungevano le sepolture.

Come potete vedere, civiltà originarie dei luoghi più disparati sono accumunate dall’utilizzo del cibo nelle proprie celebrazioni funerarie. Questo non è che un breve articolo introduttivo, e copre solo una parte piccolissima di ciò che si potrebbe dire della sfaccettata relazione fra cibo e morte. Se volete approfondire l’argomento, vi consiglio il sito www.nourishingdeath.wordpress.comNourishing Death si occupa proprio di questo ed è ulteriormente arricchito dalla collaborazione degli utenti, che sono invitati ad inviare le proprie tradizioni culinarie in fatto di funerali e commemorazioni.

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