La musica di Julia Kent è un invito al viaggio. Il senso è quello indicato da un film dello stesso titolo, diretto dal compianto Peter Del Monte nei primi anni ottanta: mutazione tra interno ed esterno. Il suo violoncello restituisce per risonanza tutte quelle vibrazioni che si muovono tra l’ambiente e lo spirito. Non ha importanza se il cuore che emerge dalla terra assuma talvolta il colore della lava più nera, perché nella ricerca sonora della musicista canadese si può passare dall’isolamento e dalle tenebre per conoscere la complessità di quelle energie che attraversano il pianeta. Dallo strumento riesce a strappare modalità inconsuete rispetto alla tradizione, creando un dialogo tra elementi analogici e incursioni elettroniche, tanto da superare le delimitazioni dei generi, con l’invenzione di una scrittura sinergica e sincretica, che naturalmente passa da uno stato a l’altro. Se l’impegno della Kent si è concretamente palesato all’interno di iniziative legate alla salvaguardia del pianeta, l’impatto politico della sua musica ha sempre la qualità del sussulto, perché interroga una posizione interiore rispetto alla morfologia del disastro. La distruzione diventa allora parte della sua stessa musica: ci smuove, provoca reazioni, si tuffa pienamente nel gioco della transitorietà, trasformando l’orrore in un’avventura possibile.

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