Le opere di Mario Pardo Segovia

 In Arte, Interviste

In occasione della Rassegna Il Rumore del Lutto, abbiamo incontrato l’artista spagnolo Mario Pardo Segovia e la curatrice della mostra “Polvo seran, mas polvo enamorado”, Annalisa Mombelli.

1 . Per cominciare, ci può dire qualcosa sul perché della mostra?

Mario Pardo Segovia:

L’idea di questa mostra è nata molto tempo fa, nel 2008 quando abitavo a Bologna e due amici mi hanno convinto ad andare alla Certosa. La visita a quel cimitero produsse in me un forte impatto emotivo perché in una passeggiata al suo interno ho imparato tanto, tutto quello che non avevo conosciuto nei mesi precedenti. L’architettura, i giardini, le sculture, la storia, il modo di vivere e di morire, la moda, le persone importanti che avevano vissuto a Bologna…erano dati che si trovavano lì, alla vista di ognuno…E poi, una delle cose che mi colpì maggiormente  fu la sensualità e la tenerezza delle sculture, i gesti, la celebrazione del corpo e della vita. Era la prima volta che non mi sentivo a disagio in un cimitero.

2. Come è nata l’idea?

Mario Pardo Segovia:

Dal quel momento cominciai a visitare altri cimiteri in Italia (senza dubbio, sono tra le meraviglie artistiche più importanti per l’Italia). Ogni visita diventò un’ esperienza incredibile e in quelle visite cominciai a capire che le sculture più interessanti appartenevano all’Ottocento e agli inizi del Novecento. A mio parere c’è uno spazio plastico comune fra scultura e fotografia nel senso che tutte e due si servono della luce e dell’ ombra, la composizione, lo sguardo, le tessiture. La fotografia può offrire altri modi di guardare gli spazi e le cose… L’hanno scorso, decisi di riguardare le fotografie che avevo scattato durante tutti questi anni e che venivano da molti paesi (Spagna, Italia, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Portogallo) e decisi fare una selezione per concorrere ad un concorso a Granada. Fui selezionato per esporre il lavoro fotografico: è quello che ho portato oggi a Parma in Galleria S. Andrea all’ interno della nona edizione de Il Rumore del Lutto. L’idea di mettere insieme fotografia, musica e parole è quella di creare stabilire ponti tra diverse manifestazioni artistiche per unificare una sensazione di bellezza collegata al tema della vita e della morte.

Annalisa Mombelli:

Credo sia stato un insieme di “sincronicità”. Il Festival Il Rumore del Lutto  si sta ampliando come manifestazione a livello nazionale e nel web. Quest’anno in realtà ci è arrivata proprio da Mario la proposta di esporre il suo progetto fotografico che ci è subito sembrato perfettamente collegato alla scelta del tema della nona edizione, ESSERE, e adatto per tipologia e quantità di opere ad essere presentato presso lo spazio espositivo dell’ex chiesa tardomedievale denominata Galleria S. Andrea.

3 . Negli Stati Uniti sta prendendo piede l’usanza dell’home funeral, ossia la pratica di prendersi cura del defunto a casa propria, senza ricorrere ai servizi di un’agenzia. Nei resoconti delle esperienze dei familiari diffuse su internet ricorrono spesso commenti sulla “bellezza” del defunto, e sul sentimento di pace e tranquillità che essa ispira. Che cosa ne pensa di questa associazione tra bellezza e morte? 

Mario Pardo Segovia:

Le pratiche nel modo di curare i defunti stanno cambiando e credo ci sia una tendenza a naturalizzare la morte e a non vederla come il contrario della vita ma come parte indispensabile per capire la vita stessa. Chi vede “bellezza”, pace e tranquillità nel defunto è sicuramente una persona che ha capito che la morte non è un punto finale ma una trasformazione naturale mediante la quale “ritorniamo” in natura. Thanatos è proprio quello: la morte non violenta (il contrario sarebbe Keres), perciò si tratta di una morte naturale, pacifica, calma. La associazione fra bellezza e morte forma parte della nostra cultura, se pensiamo al dipinto ‘La morte di Ofelia’ di Millais, o al momento della morte stessa tante volte descritta della musica (ad esempio la morte di Cleopatra di Massenet, o di Isolda di Wagner o Didone di Purcell), possiamo capire che la morte e la bellezza nell’arte sono state sempre complementari. Secondo me, l’arte è stato uno degli strumenti più utili per spiegare, interpretare, e fare accettare la morte (o almeno, a ridurne la paura).

 Annalisa Mombelli:

Non conosco molto bene questa pratica americana ma credo che forse sia utile ai parenti per meglio sopportare il dolore della perdita e potersi come immaginare che la persona cara sia serenamente ancora, in qualche misura, presente insieme a loro prima dell’ultimo saluto.

4 . C’è un netto contrasto fra la morte spaventosa, crudele e grottesca delle raffigurazioni medievali e l’essenza catturata dalle immagini di Segovia. Secondo lei, c’è un’iconografia” della morte al giorno d’oggi?

Mario Pardo Segovia:

L’iconografia medievale della morte rispondeva alla paura dello sconosciuto e, per diversi interessi, serviva per rinforzare l’idea dell’ esistenza dell’ inferno come opposto al cielo. Nell’ Ottocento, periodo a cui appartengono le sculture scattate, la morte venne capita e rappresentata in modi molto diversi. La morte diventa una esperienza individuale e soggettiva e non tanto una esperienza interpretata dalla religione. Durante il XIX secolo dunque, la creazione artistica guarda verso la vita: il corpo, il gesto, il conosciuto e tutto quello con cui possiamo identificarci. Direi che l’iconografia attuale (almeno nella cultura occidentale) è diventata più anonima, più intima. Il ricordo solo rimane per i più cari e solo mentre loro vivono. Perciò non saprei scegliere una immagine che abbia abbastanza forza per essere rappresentativa della morte in modo comunitario.

 Annalisa Mombelli:

I “trionfi della morte” e le “danze macabre” tardomedievali sono espressione non solo artistico-teologiche ma anche di accadimenti storici ben precisi come epidemie di peste o carestie che colpivano in ugual misura tutta una popolazione. Per questo troviamo scheletri danzanti delle stesse dimensioni di prelati, nobili, bambini, poveri. Nei secoli la raffigurazione della morte diventa forse sempre più libera da vincoli religiosi o teologici ed artisti e committenti colti attingono a repertori iconografici antichi e anche di varie culture, oggi forse ancora di più rispetto al secolo scorso tanto che a tratti alcuni artisti contemporanei trattano in modo sfacciato, o anche ironico, la immagine della morte. Mario invece con uno sguardo attento e grande sensibilità fotografica coglie ed esalta proprio la tensione vita-morte di queste sculture funerarie e le carica di una certa romantica malinconia.

 5 . Ricordo un articolo in cui si parlava del fatto che il teschio, per secoli il simbolo della mortalità per eccellenza, è ormai privo di significato perché è ormai visibile ovunque (su capi di vestiario, accessori ecc.) A seguito della domanda precedente vi  chiedo perciò se avete qualche idea su quale sarà l’iconografia della morte nel prossimo futuro…

Mario Pardo Segovia:

Per rispondere a questa domanda farei uso del senso comune. Come dicevo prima, la cremazione  sta diventando il modo più abituale che la gente sceglie per i propri  cari quindi non sarebbe strano che il fuoco o la fiamma diventino una iconografia futura della morte ( si può riutilizzare la fenice come “icona”).

Annalisa Mombelli:

Credo che certi elementi come il teschio, lo scheletro o la croce faranno sempre parte del repertorio iconografico della morte. È vero anche che stanno diffondendosi pratiche diverse dalla tumulazione come l’urna bios cioè un’urna biodegradabile che trasforma le ceneri del defunto in albero… quindi un nuovo soggetto potrebbe diventare proprio “l’albero della vita”.

 6 . Ci può dire qualcosa sul legame fra eros, thanatos e la figura femminile, che per eccellenza raffigura il concetto?

Mario Pardo Segovia:

Il fatto che si usino tante volte le figure femminili c’entra molto col fatto che la donna ha avuto attraverso la storia un ruolo simbolico più versatile di quello dell’ uomo. La donna è stata rappresentata per mostrare afflizione, cura dei defunti e degli ammalati, è stata rappresentata come compagna, come anima e come immagine della morte stessa. Non solo quello, anche quando è un angelo la figura che si usa, viene raffigurata con corpo di donna. Anche, se diamo uno sguardo alla storia dell’ arte, capiremmo che c’è stato meno pudore a rappresentare la nudità femminile rispetto a quella maschile, inoltre il corpo della donna è stato usato più del corpo dell’ uomo per esprimere emozioni e sentimenti che nell’ uomo sono sempre costretti. L’uomo venne quasi sempre usato come l’eroe mentre la donna viene usata per fare notare la fragilità del corpo e la sensualità. Poi, per quanto riguarda l’eros, secondo me è così presente nelle sculture funerarie per farci pensare alla vita e alle cose che ci hanno fatto sentirla in un modo più intenso, cioè, attraverso l’amore, i sensi, i gesti, il desiderio.

7 . Un giorno, accompagnando un parente straniero al cimitero monumentale di Staglieno a Genova, mi sentii porre la domanda: “perché spendere tanto denaro per farsi costruire una tomba del genere?”. Ci può contestualizzare un po’ le motivazioni dietro questa scelta?

Mario Pardo Segovia:

C’è una spiegazione storica a queste motivazione. Nel primo Ottocento, e dopo l’ Editto napoleonico di Saint-Cloud, si vietò seppellire nelle chiese e così i camposanti furono messi fuori della città per questioni di igiene pubblica. Nelle chiese, c’erano posti simbolici dove seppellire le persone più importanti ma nei nuovi cimiteri fu necessario trovare altri modi per farsi notare e conquistare un posto nella memoria. Questi spazi erano perfetti per una borghesia che, arricchitasi con industria e commercio, approfittò della circostanza  per dimostrare la propria posizione sociale ed economica. Questo nuovo mecenatismo facilitò molti scultori e artisti a trovare un lavoro in cui proiettare la propria creatività e, addirittura, questa concorrenza rese possibile la ricerca di  modi originali per decorare le tombe. Se pensiamo a Staglieno, è sorprendente la quantità di lavoro che generò il cimitero in quella città visto che quasi tutte le sculture furono commissionate e fatte in un arco di novanta anni. Se ci pensiamo a modo, ci rendiamo conto che forse avevano ragione a fare così, anche se ormai non sappiamo quasi  niente delle persone lì sepolte.

8 . Domanda di cultura generale: cosa ne pensate della narrativa contemporanea secondo la quale la morte, al giorno d’oggi, è un taboo? Dalla quantità di eventi e mostre dedicate al soggetto, non si direbbe!

Mario Pardo Segovia:

Non penso che sia un taboo ma credo che non si rifletta molto sul suo significato. Durante questi anni ho trovato molta gente che non capiva questo interesse per i cimiteri e infatti quando sono andati alla mostra di Granada sono rimasti molto sorpresi perché non si aspettavano di trovare tutta quella bellezza e sensualità. “Portare” il cimitero in città è servito per portare la gente al cimitero. Infatti in molti mi hanno poi riferito di essere andati al cimitero di Granada dopo aver visto la mostra per riconsiderarlo con altri occhi, quindi per me è stata una grande soddisfazione. C’è bisogno di  perdere la paura dei cimiteri e capire che sono anche posti invitanti per passeggiare, per imparare, per riflettere sulla morte e soprattutto, sulla vita.

 Annalisa Mombelli:

Credo che ci sia ancora molta difficoltà ad accettare la fine della vita. Nella nostra società contemporanea si è come rotta l’idea del ciclo naturale di vita-morte-rinascita, tutto sembra debba durare in eterno e ci si sforza con ogni mezzo perdendo invece di vista il vero senso delle cose. Credo che la diffusione maggiore di iniziative legate al tema sia la risposta ad una esigenza di ritrovare proprio quell’equilibrio.

 9 . Mi permetta di porle una domanda più personale. L’aver curato questa mostra l’ha fatta riflettere in modo diverso sul tema della mortalità?

 Annalisa Mombelli:

Ho in realtà proprio negli ultimi miei anni di vita, anche se poco più che trentenne, già avuto modo di riflettere molto sul tema della mortalità poiché mia mamma è morta a causa di un tumore tre anni fa ed io due anni fa ho rischiato la vita a causa di una infezione al cuore. Quindi sono uscita da questo “uragano” certamente cambiata e sensibilizzata; non mi spaventa più l’affrontare ed il riflettere sui temi legati alla morte. Perciò è stato interessante e stimolante lavorare con Mario alla realizzazione della mostra poiché le sue fotografie, esaltando sguardi, pose, particolari di sculture create in un preciso contesto storico, riportano un’idea romantica di Amore perpetuo al di là della vita tangibile (forse limitata?!) che noi conosciamo.

Le fotografie scattate durante la mostra sono a cura di Mary Corradi

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