Conversazione con Ana Cristina Vargas

 In Interviste, Maria Angela Gelati

Vargas1La studiosa Ana Cristina Vargas è Direttrice della Fondazione Fabretti di Torino, un’istituzione culturale che opera nel campo della tanatologia, concentrandosi in particolar modo sullo studio, la ricerca, la formazione e l’editoria dei temi quali la morte e il morire. Attualmente è professoressa a contratto di “Antropologia Culturale” presso l’Università degli Studi di Torino. L’abbiamo incontrata.

1 • Cosa significa per lei ricoprire il ruolo di Direttore scientifico della Fondazione Ariodante Fabretti?

Questo ruolo rappresenta una grande sfida e un’importante opportunità sul piano personale e professionale. Sono Direttore Scientifico dalla fine del 2012, ma ho cominciato a collaborare con la Fondazione nel 2004. Nel corso di questi anni ho potuto constatare l’importanza dei nostri obiettivi. Sono convinta della necessità di coltivare spazi di riflessione, di studio e di confronto sul tema del fine vita, un ambito dell’esperienza umana che la nostra società tende negare o, quantomeno, ad allontanare dagli orizzonti della vita quotidiana.

2 • Qual è il ruolo della cultura nell’esperienza della morte e del morire?

Non è facile rispondere in modo sintetico a una domanda così complessa. La preoccupazione per la morte e il bisogno di occuparsi dei morti accompagna l’umanità fin da fasi molto precoci nel processo di ominazioni. Tutte le società hanno sviluppato dei sistemi di idee, di rappresentazioni e di azioni che inscrivono la morte all’interno di particolari visioni del mondo e che contribuiscono a rendere “pensabile” un evento che mette radicalmente in crisi il singolo e la società. Per Louis Vincent Thomas, uno dei fondatori della tanatologia, la cultura stessa non sarebbe altro che un insieme organizzato di credenze e di riti costruiti nel tentativo di lottare contro il potere distruttivo della morte. Pur senza abbracciare completamente la visione di Thomas, possiamo trarre da essa lo spunto per affermare che la cultura è una risorsa che permette di affrontare il dolore per la perdita, di significare eventi destabilizzanti e di costruire orizzonti simbolici di permanenza per chi non c’è più.

3 Identità e cultura sono dinamiche in mutamento: un processo che si costruisce e si negozia continuamente, basta pensare al ruolo della famiglia e soprattutto della donna, ai modi di vivere la morte e superare il lutto. Qual è la sfida che oggi ci attende?

Aggiungerei i fenomeni di secolarizzazione, l’indebolimento della ritualità tradizionale e le migrazioni internazionali, che hanno reso necessario il confronto con nuove ritualità e con nuovi orizzonti di significato. Prima affermavo che possiamo considerare la cultura una risorsa, quindi direi che la sfida è quella di restituire importanza alla dimensione culturale e rituale, rinnovandola. Il rito del commiato e le sale del commiato sono esperienze che vanno in questa direzione.

4 • Di fronte al bisogno esistenziale di dare senso alla morte ogni cultura ha dato vita ad una pluralità di riti e rappresentazioni. Come viene “vissuta”, ai nostri giorni, la ritualità funebre?

C’è una sorta di “vuoto sociale” che circonda la questione della morte e del morire e che ha indebolito le risposte collettive e condivise. Siamo di fronte a forti fenomeni di deritualizzazione della morte e, ancor più, del lutto. Questo però non vuol dire che la ritualità è scomparsa, direi piuttosto che essa si sta trasformando: si pensi per esempio alla forte esigenza di personalizzazione del rito o a nuove forme di trattamento dei resti, come la dispersione o la conservazione domestica delle ceneri.

5 • Cosa accade quando si muore lontano dalle proprie radici, in un paese in cui si è stranieri, immigrati o “altri”?

“Morire altrove” vuol dire morire in un luogo diverso rispetto a quello in cui si hanno le principali risorse simboliche e, talvolta, anche gli affetti. Spesso si sceglie il rimpatrio, ma le tendenze europee mostrano che più c’è un radicamento delle comunità o delle persone nel contesto di arrivo, meno si tende a desiderare un ritorno in patria dopo la morte. Trovo quindi essenziale costruire spazi idonei per ospitare riti diversi rispetto a quelli della tradizione cattolica e predisporre campi o spazi cimiteriali costruiti secondo i precetti di altre confessioni o di altre realtà culturali.

6 • Guardando alle numerose attività della Fondazione Fabretti come si stanno sviluppando, a livello territoriale, i Gruppi di auto mutuo aiuto?

I gruppi sono molto attivi e il progetto continua a dare riscontri positivi. È una metodologia in cui crediamo molto perché valorizza un sapere che nasce dall’esperienza e si fonda su principi come la solidarietà, l’ascolto, il rispetto e il sostegno reciproco. Al momento vi sono sei gruppi. Le riunioni si realizzano in orario preserale e serale, dal lunedì al giovedì. La partecipazione ai gruppi è completamente gratuita e aperta a tutti.

7 • Un altro aspetto collegato alla vostra istituzione è lo “Sportello di sostegno al lutto”. Ce ne può parlare?

Si tratta di uno sportello di ascolto. C’è una linea telefonica dedicata, a cui risponde Arianna Garrone la nostra Counselor e coordinatrice del progetto di sostegno al lutto. Colgo l’occasione per ricordare che il numero è 346 8649355. Si può poi fissare un appuntamento per un colloquio, che è utile per valutare il tipo di percorso da intraprendere. Lo sportello e i gruppi sono possibili grazie al sostegno della Fondazione CRT e al costante appoggio logistico della Socrem Torino.

8 • Cosa è possibile aspettarsi, in un futuro prossimo, dai vostri progetti?

Punteremo molto sull’interculturalità, consolideremo il progetto di sostegno al lutto, apriremo nuovi filoni di ricerca e ridaremo slancio alla nostra rivista Studi Tanatologici.

9 • Cosa pensa del progetto culturale “Il Rumore del Lutto”? 

Lo trovo molto interessante e mi piacerebbe conoscerlo meglio!

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