Cimiteri e memorie

 In Arte, Maria Angela Gelati
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La tua morte è come un’isola di luce.

Nessuna barca per raggiungerti.

Bisognerebbe saper camminare sulla luce.

Si deve imparare, si impara…

Christian Bobin

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Per cogliere le dinamiche di un cimitero bisogna entrarvi, sentirne l’atmosfera. L’esperienza personale conta quanto l’aspetto esteriore.

Quando si entra in un cimitero emergono numerosi gli elementi esteriori e i particolari legati alla nostra storia personale, condizionati dalla particolare attitudine della morte a nascondersi tra i meandri della “cultura”, aspetto da lei stessa prediletto, che la avvolge e che la interpreta, che attraverso strutture ed immagini, con cui scegliamo di rappresentare la nostra ed i nostri morti, ne esorcizza gli aspetti più bui e tenebrosi.

I cimiteri non sono solo i luoghi di conservazione permanente delle spoglie umane; essi si presentano a noi come “duttili contenitori della cultura e della memoria storica”.

La tipologia del cimitero è entrata a far parte del repertorio costruttivo e architettonico solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, mentre la parola “cimitero” si è imposta definitivamente nella lingua parlata a partire dal XVI secolo, con il significato che ancora oggi le appartiene.

Di fatto il termine “cimitero” come l’inglese “cemetery”, il francese “cimetière” e lo spagnolo “cementerio” derivano dalla parola latina “cimeterium” che proviene dal greco “koimêtêrion” che significa dormitorio, venendo a designare semplicemente il luogo della casa dove si dorme. Il tedesco “friedhof” vuole dire “cortile di pace”. L’uso della parola “koimêtêrion”, nel senso di luogo dove avveniva la sepoltura dei morti, corrisponde ad una attestazione di appartenenza alla tradizione giudeo-cristiana. Etimologicamente proviene dal verbo “koimaô” (dormire) e testimonia la fede nella resurrezione. Infatti i cristiani non chiamarono più i defunti i morti ma coloro che dormono e la morte fu detta koimêsis (il sonno). Il simbolismo morte-sonno, utilizzato per designare la morte, comincia ad essere impiegato per esprimere il carattere transitorio della morte quando gli ebrei si volgono a sperare, a credere nella resurrezione.

Secondo l’antropologo Jean-Didier Urbain è a partire dal XIX secolo che il cimitero, in particolare quello europeo, diviene biblioteca, e le tombe divengono libri; naturalmente non documenti cartacei, che si aprono e si sfogliano, ma “libri a terra”: il libro è infatti elemento frequente, sulle pietre tombali moderne e contemporanee, aperto o chiuso, posto in segno di commemorazione o di oblio.

Biblioteca o archivio, ogni cimitero raccoglie tutti i ricordi, le memorie che vengono a costituirne l’humus culturale, vivificandolo attraverso il proprio linguaggio. Il cimitero si racconta attraverso autori assenti, poiché il defunto più che un morto è un assente (“egli riposa”, “egli dorme”, dicono gli epitaffi) mentre il visitatore diventa lettore e, come in un libro, dove le storie possono dialogare, potrà leggere, immaginare, pensare, supporre, cercare di comprendere quali relazioni o dinamiche caratterizzano quel cimitero, procedendo ad una sorta di confronto con altri complessi di memoria individuale o collettiva. Le varie “storie”, collegate tra loro, potranno in tal modo consentire un dialogo.

In sostanza il cimitero diviene una forma di linguaggio, dove le tombe – oggetti simbolici, paragonabili, comparabili e classificabili – prendono il posto delle parole, delle frasi e dei pensieri, raccolte e fruibili nell’ambito dello spazio ad esse istituzionalmente destinato.

Questa particolare caratteristica del cimitero, l’iscrizione su pietra, forma di scrittura lasciata in memoria ai sopravvissuti, si è nel tempo via via personalizzata e semplificata fino a riportare solo il nome del defunto con i simboli convenzionali e le date di nascita e morte.

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